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Filosofia del Tango

Relazione Saverio Tassi : Filosofia del Tango

FILOSOFIA DEL TANGO Premessa :

 

non è, quella che mi appresto a svolgere, una conferenza, tanto meno una lezione cattedratica. Vuol essere, invece, solo un invito e uno stimolo a riflettere e a dialogare tra noi, sulla base della propria personale esperienza e nello spirito del Circolo confronti, su che cos’è il benessere profuso dal ballare il tango, allo scopo pratico di intensificarlo sempre più e sempre meglio. Di conseguenza, questo mio intervento aspira tutt’al più a offrire qualche spunto alla discussione, suggerendo quali possono essere alcuni aspetti salienti che innervano l'esperienza del tango, aspetti da me selezionati facendo interagire il mio vissuto personale immediato e le conoscenze più o meno filosofiche da me apprese e meditate da quando ero al liceo fino a oggi. Detto altrimenti: ho utilizzato alcune suggestioni filosofiche per meglio comprendere le sensazioni benefiche che ballare il tango suscita in me al fine di potenziarle. In particolare, prenderò in considerazione 4 aspetti del ballare il tango: la musica, la danza, la creatività (ossia l’artisticità), la socialità (in cui naturalmente è inclusa la sessualità). Come vedremo, solo astrattamente questi aspetti sono separabili, nella realtà del ballo del tango sono, per così dire, in una sovrapposizione quantistica, cioè fondamentalmente sono una cosa sola, sono complementari ognuno agli altri, interagiscono tra loro in un rapporto a feedback, cioè rafforzandosi a vicenda. E sono distinti solo nel momento in cui li “misuriamo”, cioè cerchiamo di comprenderli entro i limiti strutturali della nostra mente che non può fare a meno di analizzare, cioè di dividere in elementi primi ciò che in realtà è un tutt’uno.

 

Un primo aspetto del fare tango, per me quello prioritario, è costituito dalla musica. Che cos’è la musica? Qual è la sua essenza? Perché ci piace e ci dà benessere? Per rispondere a queste domande trovo sia illuminante l’antica teoria pitagorica, poi ripresa e rilanciata da Platone, della musica come matematica in suoni e dunque come fonte di ordine, armonia e bellezza. L'intera realtà, il cosmo (termine greco che significa appunto armonia, da cui "cosmetico"), secondo i pitagorici, è pervaso in ogni suo punto dalla musica prodotta e diffusa dal moto dei pianeti intorno all'Hestia (fuoco sacro) e i pianeti a loro volta sono mossi dalla musica che producono, ovvero danzano questa musica. In questo senso, la musica per i pitagorici e Platone ci procura benessere perché ci infonde armonia e bellezza e ci infonde armonia e bellezza perché ci pone in una relazione simpatetica con l'intero cosmo, ossia ci solleva dalla nostra individualità, ci fa trascendere i limiti del nostro corpo e della nostra mente individuali facendoci provare il sentimento dell’unione con il tutto. Insomma, la musica induce una piccola estasi, cioè una fuoriuscita dalla limitatezza del proprio io.

 

Un secondo aspetto saliente del tango, strettamente connesso al primo, consiste nella sua appartenenza al genere della danza. Tutti sappiamo infatti che il tango è un tipo di ballo che a sua volta è un tipo di danza. Banale. Ma forse non tanto non appena ci chiediamo: Cos’è davvero la danza? Qual è la sua essenza? Perché danzare ci fa stare bene? La risposta certo c’entra con la musica e quindi con quanto osservato prima a proposito della musica. Ma non è riducibile alla risposta data prima alla domanda “qual è l’essenza della musica?”. La danza è certo musicale, ma non è solo e tanto un ascoltare la musica o un fare musica con uno strumento o con la propria voce, ossia cantando. La danza è sì musica, ma è musica incorporata, nel senso letterale di immessa nel corpo, musica incarnata, e quindi musica vissuta. Meglio ancora, la danza è il corpo musicato, è il nostro corpo che, facendosi di musica, si fa musica, si rende musica in atto, in due parole: si musica. Dunque, la danza è sì musica, ma è qualcosa di più della semplice musica. Danzare, a mio parere (assai poco raccomandabile), significa lasciarsi invasare e possedere dalla musica, vuol dire assorbire la musica in ogni fibra del nostro corpo-mente, fino a renderci uno strumento musicale, cioè a farci suonare con il nostro stesso corpo-mente la musica che stiamo ascoltando. In base alla mia esperienza vissuta, non sempre, ma almeno in alcuni “momenti di grazia”, ossia quando riesco a lasciarmi invadere completamente dalla musica, fino a sentirmi quasi trasportato, anzi direi da essa librato, è proprio in quei momenti che provo la massima sensazione di benessere, che riesco a sentire il massimo benessere sprigionarsi dal ballare il tango. Da cosa è costituita la sensazione di benessere che così percepisco? Quali sono i suoi ingredienti? Direi la sospensione o almeno l’attenuazione del pensiero, ovvero il (quasi) vuoto mentale, lo spegnimento o almeno l’assopimento dell’io (presupposto per Freud anche del sognare); la conseguente sensazione di leggerezza e fluidità del corpo, ovvero l’assenza di percezione della pesantezza, la liberazione almeno parziale dalla forza di gravità; e insieme l’annullamento o almeno la minimizzazione della stanchezza e della fatica. È come se non agissi più io, ma mi agisse la musica, come se la musica diventasse il burattinaio e io una marionetta senza fili, o meglio senza fili visibili, mossa in realtà dai fili invisibili costituiti dalle onde sonore musicali. Un altro sintomo di questo particolare stato di grazia mi sembra la perdita della percezione del passare del tempo, che credo sia esperienza comune: se ben ballata, una tanda sembra finita ancor prima di essere cominciata. Si tratta di una sensazione psicologicamente e fisiologicamente riconducibile all’essenza armonica della musica. Questa, infatti, una volta assorbita nel nostro corpo/mente, lo rende armonico, potenzia la coordinazione delle sue parti e dei suoi movimenti. Nondimeno, è una sensazione che a livello della mia immaginazione è sintetizzabile e esprimibile ancor meglio in una sola parola: volo. Attenzione, so bene che il tango è considerato un ballo “di terra”, saldamente ancorato al suolo, immanente si direbbe con linguaggio filosofico. In questo senso, il tanguero è più che mai un uomo o una donna con i piedi per terra, non intendo affatto negarlo. Nondimeno, quando ballo penso, anzi sento, che proprio quell’essere e rimanere attaccato alla terra, e anche quel fare perno sulla terra e prendere così slancio da essa, mi permette al contempo di svincolarmi da essa e di scivolare su di essa, infondendomi così una sensazione di leggerezza che assomiglia a quella del volo. Trovo un riscontro filosofico di questo mio vissuto in alcune tesi di Schopenhauer e di Nietzsche. Secondo il primo, infatti, l’arte, e la musica più di ogni altra arte, ha il potere di incantarci, ossia di paralizzare il nostro volere individuale, la nostra coscienza desiderante, sempre in tensione per raggiungere qualche scopo e per questo sempre affaticata o anche preoccupata o perfino addolorata, cosicché almeno temporaneamente, finché siamo rapiti dalla contemplazione estetica, smettiamo di affaticarci, di preoccuparci e di soffrire. Anche per Nietzsche l’arte per eccellenza è la musica, anzi la mousiké, termine greco antico che significava poesia musicata e danzata. La mousiké era praticata dai cori delle tragedie greche che cantavano e danzavano versi poetici al suono di strumenti musicali. Ma era praticata già secoli prima della tragedia nei riti religiosi collettivi, in particolare quelli dedicati a Diònisos, dai quali secondo Nietzsche la tragedia scaturì. La mousiké per Nietzsche è la massima espressione e realizzazione dell’impulso dionisiaco, che induce una sorta di trance, nella quale i danzanti ebbri perdono la coscienza della propria individualità e provano una sensazione di fusione non solo tra di loro ma anche con animali e cose (mi ricorda la canzone in cui Gaber dice che fa l’amore “con chi vuole, donne, uomini, animali... caloriferi”), ovvero con il tutto, la realtà nella sua unità primigenia, simboleggiata appunto da Diònisos. Questa interpretazione nietzscheana della danza mi richiama alla mente la danza circolare, detta “turbinante”, dei monaci islamici chiamati dervisci, che consiste nel ruotare o piroettare su se stessi, e che ha lo scopo di trascendere la propria individualità per raggiungere l’estasi, ossia l’unione con l’unico, totale principio divino, cioè per loro Allah. A questo proposito, mi ha colpito la definizione che Miguel Zotto ha dato del tango in un’intervista. Molti credo conoscano la definizione tradizionale del tango come “un pensiero triste che si balla”. Borges, nel suo libro Il tango, contesta questa definizione, sostenendo che il tango è nato nei postriboli portegni come un ballo scanzonato e allegro, tutt’altro che triste. Anche Zotto contesta la definizione tradizionale, tuttavia sostiene che il tango esprime il sentimento della nostalgia. Tesi che ha un fondamento storico-sociale, dato che in origine il tango era ballato da migranti provenienti non solo da altri paesi ma anche dalle pampas argentine; e che dunque provavano nostalgia per i luoghi natii che erano stati costretti ad abbandonare. Nostalgia (dal greco nostos, ritorno, più algia, dolore), significa dolore del ritorno, cioè la sofferenza che si prova per il desiderio irrealizzabile, o non ancora realizzato, di tornare nella propria terra natia, alla propria casa. Da questo punto di vista, l’emblema del nostalgico è Odisseos. Cosa c’entra tutto questo con i dervisci o i tragoi, ossia i partecipanti e le partecipanti - le famose menadi o baccanti, invasate di musica - ai riti dionisiaci? Infatti, non c’entra. Ma comunque mi arrabatterò in qualche modo per farcelo c’entrare e addirittura per farci entrare non solo Nietzsche e la sua primigenia unità dionisiaca di ogni cosa ma anche Platone e il suo primario mondo delle Idee. Entrambi questi filosofi, infatti, in alcune tesi delle loro pur antitetiche filosofie esprimono il desiderio nostalgico di tornare alle origini, di cui l’Itaca di Odisseos è un simbolo. Insomma, attraverso questo doppio e opposto filtro filosofico, la nostalgia che si vive ballando il tango può esprimere l’aspirazione a rifondersi con l’origine di tutte le cose, che sia essa del tutto terrena e immanente, come per Nietzsche, o celeste e trascendente, come per Platone. Quest’ultimo in particolare sostiene che, grazie all’esperienza della bellezza - un’esperienza tanghera, perché la musica danzata, come abbiamo visto, è armonia e quindi bellezza incorporate -, l’anima di ogni essere umano si ricorda del mondo ideale cui in origine apparteneva ma dal quale si è distaccata per incarnarsi in un corpo, e quindi prova nostalgia per esso, e così mette le ali che le permettono di intraprendere il volo per ritornare da dove era venuta. E così mi ricollego alla mia sensazione di volo nel ballare il tango. Per i più idealisti, almeno, provare ballando questa nostalgia trascendente e questa sensazione di volo può essere un’ulteriore fonte di benessere. Per i materialisti, c’è sempre l’alternativa terrena, anzi ctonia, tellurica, sotterranea, di provare nostalgia per la propria origine dionisiaca e di inabissarsi in essa. È un’altra forma di benessere.

 

Un terzo aspetto, inevitabilmente intrecciato ai due precedenti, è per me rappresentato dalla creatività, sinonimo di artisticità. Il maggiore tasso di creatività è a mio inaffidabile giudizio ciò che fa la differenza tra il tango e gli altri tipi di ballo. Almeno relativamente ai diversi balli che ho praticato, mi pare che il tango sia preferibile perché non è ingabbiato in figure rigide e ripetitive, ma è basato sull’improvvisazione e sulla continua variazione, ossia permette la massima espressione della creatività del ballerino, e quindi della sua personalità. E la creatività si manifesta non solo nella composizione delle figure, ma anche nella velocità/lentezza del movimento, nella sua qualità, cioè nel suo stile, nella sua interpretazione emotiva. Quando diciamo creatività diciamo arte, perché l’arte è creatività per eccellenza. Musica, danza, ballo sono arti, in quanto sono forme di creatività. Da questa angolatura, ancora Nietzsche sostiene che la creatività artistica è la massima espressione della volontà di potenza, che, depurata delle sue scorie megalomani e aggressive, può essere interpretata, o reinterpretata, come il desiderio di potenziare le proprie capacità. In questo senso, afferma Nietzsche, esprimere la propria creatività, creare, costituisce il massimo livello di auto potenziamento e quindi induce la massima sensazione di benessere. Una sensazione che nel tango proviamo quando, spesso “per caso”, cioè inconsciamente, facciamo un nuovo movimento o componiamo una nuova figura. E proviamo un benefico sentimento di profonda e meritata soddisfazione. A questo riguardo ci illumina un altro grande filosofo, Gadamer, secondo il quale la base di ogni arte è il gioco, che egli configura e definisce, guarda caso, come un movimento di andirivieni, ovvero un moto circolare, cioè come un’attività fine a se stessa, afinalistica, senza uno scopo ulteriore, diverso dal giocare stesso. Addirittura rifacendosi all’etimologia e all’uso del termine tedesco Spiele, il cui significato corrente è appunto “gioco”, Gadamer lo traduce anche ballo, in quanto il ballare è un movimento ricorsivo, che ha come fine il ballare stesso. Da questo punto di vista, afferma Gadamer, quando giochiamo, siamo giocati. È il gioco che muove i giocatori i quali, proprio perché, sono mossi da esso, provano una sensazione di leggerezza e libertà. Tuttavia, per Gadamer l’arte non è solo gioco, è un gioco speciale, particolare, in quanto l’arte è un gioco di “trasfigurazione in forma”, cioè un gioco estetico, un gioco che aspira a rappresentare la bellezza. Come tale, l’arte per Gadamer manifesta una superiore dimensione della realtà, la realtà ideale, la realtà vera, contrassegnata appunto dalla bellezza. Pertanto per Gadamer, l’arte non è mero divertimento, ma è il genere più alto di conoscenza. Gadamer si basa sull’equazione verità = bellezza = bene(ssere), cardine della filosofia di Platone. Applicando la teoria filosofica gadameriana al tango, possiamo dire che, se e quando riusciamo a ballarlo in modo creativo e armonico, cioè bello, facciamo arte e dunque acquisiamo conoscenza, ci avviciniamo alla verità. Anche questo produce benessere, credo.

 

Un quarto e ultimo aspetto, già parzialmente toccato in relazione alla danza dionisiaca in quanto azione collettiva, è quello della socialità. L’aspetto sociale distingue il ballo in quanto tipo specifico di danza, ovvero come una danza di coppia, anziché individuale o di gruppo. E in particolare mi sembra che il tango si distingua da altri balli proprio perché si basa su una maggiore o più costante vicinanza, direi anzi aderenza, dei ballerini. “Il tango è una relazione verticale che simula una relazione orizzontale”, è la nota e arguta battuta di un filosofo vivente, Woody Allen. Una battuta che si riallaccia alla tesi di Borges, secondo cui il tango è nato nelle casas malas, nei lupanari, a scopi propedeutici, ossia introduttivi… In ogni caso, quella di Allen è una battuta che enfatizza l’importanza della relazione di coppia dei tangueros. Tutto quanto ho detto prima sulla musica, sulla danza e sulla creatività o artisticità va connesso a questa relazione perché l’armonia, la bellezza e il benessere che si possono raggiungere grazie al movimento musicale del tango si possono raggiungere solo se c’è sintonia, cioè armonia, nella coppia ballante. In questo modo, emerge un valore aggiunto, quello di sentirsi insieme all’altro, abbracciati e al contempo abbraccianti, in una relazione affettuosa, che di per sé induce un benessere naturale, istintivo, e che però può scaturire e soprattutto intensificarsi solo se c’è anche un’intenzionale tensione ad armonizzarsi l’una all’altro. In questo senso, il benessere del tango deriva anche dal fatto che stimola a venirsi incontro, a riconoscere e ad accettare la diversità dell’altro, a trovare un’intesa paritetica con l’altro o l’altra, e quindi più in generale a sviluppare la propria relazionalità. (A questo proposito poi si potrebbe elaborare, e sicuramente qualcuno l’avrà già fatto, un’ermeneutica del linguaggio del tango, ovvero delle diverse figure tanghere, cioè una decifrazione del loro significato come espressione delle diverse situazioni e gradi e sfumature di amore/odio, attrazione/repulsione, avvicinamento/allontanamento. P.e., cosa significa da questo punto di vista un gancio o una volcada). In ogni caso, a mio stravagante giudizio, l’equilibrio e l’intesa dei tangueros ha la sua chiave di volta, anzi di violino, nella musica. È solo sintonizzandosi con la musica che la coppia tanguera può sintonizzarsi, la musica è il mastice, il collante, ciò che produce l’armonia di coppia. Sempre relativamente all’aspetto della socialità, a un livello più profondo, ovvero di psicologia del profondo, possiamo tirare in ballo (un tango naturalmente) anche Freud e la sua teoria psicoanalitica. La battuta di Woody Allen prima citata esemplifica molto bene il concetto freudiano di sublimazione: dati i limiti naturali e sociali che il nostro Es deve accettare, la nostra libido repressa secondo Freud ci renderebbe ben più nevrotici di quanto già comunque siamo se non potessimo sublimarla, ovvero deviarla e sfogarla nelle attività culturali e sociali. Non mi risulta che Freud abbia mai dato un’interpretazione psicanalitica del ballo, tuttavia credo che, dalla sua teoria psicanalitica, si possa dedurre che il ballo in generale e più che mai il tango è una delle forme più efficaci e benefiche di sublimazione della libido. Anche perché, grazie al cambio continuo del partner, il tango permette di simulare non solo un singolo rapporto orizzontale ma rapporti orizzontali multipli, ovvero il desiderio dell’Es, per Freud anarchico e illimitato, di libero amore. Di simulare, e così sublimare, perché altrimenti altro che benessere!, sarebbero guai e malesseri a non finire. “Il tango è una relazione verticale che simula una relazione orizzontale”: non è detto che una simulazione sia per forza peggiore dell’atto originale che simula. A parte il fatto che a volte anche le relazioni orizzontali sono simulazioni. E della peggior specie.